venerdì 4 aprile 2008

I Farmaci

Con quello di oggi inizia un percorso “ambizioso” ma al tempo stesso realizzabile: quello che vuole sensibilizzare gli utenti quotidiani dei farmaci nei confronti delle sostanze da essi stessi assunte. Tale percorso è sicuramente complesso per i molteplici aspetti che sarebbero necessari da affrontare, ma ciononostante proverò a semplificare il tutto in maniera tale da rendere comprensibili a tutti gli argomenti che da qui in poi tratteremo. Nel fare ciò, ho deciso di avvalermi della consulenza della new entry del nostro blog, Alessandra Castrogiovanni, studentessa al 5o anno di Medicina e Chirurgia e a cui do il benvenuto tra noi.. Nella speranza di rendervi un servizio utile, iniziamo la nostra trattazione.

Farmaco: aspetti generali

Per farmaco si intende qualsiasi sostanza neo sintetizzata o d’estrazione in grado di esercitare una determinata azione sull’organismo tale da permettere la remissione di una patologia o la prevenzione nella comparsa di una specifica malattia (si pensi ai vaccini per esempio). Secondo la legislazione italiana (DL 178 del 29 Maggio 1991) è da intendersi come medicinale ogni sostanza preparata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane od animali, nonché ogni sostanza che è somministrata all’uomo o all’animale allo scopo di stabilire una diagnosi medica, di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche anomale”. Tale azione è possibile poiché il farmaco riesce a legare specificatamente (ma spesso non selettivamente) un recettore ossia un qualsiasi bersaglio (enzima, dna, recettori cellulari) cui il farmaco è in grado di attivare o disattivare una particolare funzione.

Da un punto di vista etimologico si pensa che la parola “farmaco” derivi dal greco pharmacon che vuol dire rimedio ma al tempo stesso anche veleno. Tale termine riesce dunque a raccogliere in sé un aspetto fondamentale di tutti i trattamenti farmaceutici: non esiste alcun farmaco che sia al 100% sicuro per l’uomo. Ogni medicamento infatti, se assunto a dosi eccessive o in situazioni di non necessarietà può comportare l’insorgenza di patologie e dunque trasformarsi da rimedio a veleno (torneremo a trattare più approfonditamente questo aspetto tanto importante nei successivi interventi). Tale dicotomia s’è mantenuta nel termine inglese “drug”.

Composizione

Il componente più importante di un farmaco è il suo principio attivo (tanto che in senso stretto il concetto di “farmaco” coincide proprio con quello di principio attivo) ossia quella particolare molecola (o insieme di tali) in grado di determinare un effetto farmacologico e dunque terapeutico. Per potere esplicare la sua funzione, il principio attivo deve essere “veicolato” presso il sito che è sede della patologia: ma poiché spesso tali siti sono inaccessibili direttamente, risulta essere impossibile introdurlo “nudo” in queste zone (ad esempio un ipoglicemizzante che deve raggiungere il pancreas). Anche da tale esigenza nascono le forme farmaceutiche ossia sistemi mono o plurifasici, costituiti da uno o più principi attivi e da un insieme di sostanze chiamate eccipienti, progettati per veicolare una nuova entità chimica (NCE) o un farmaco già noto.

Gli eccipienti sono spesso definiti quali sostanze ausiliarie di una forma farmaceutica sebbene la loro importanza resti fondamentale: questi servono a conferire forma e volume al preparato medicinale ma al tempo stesso possono svolgere una più precisa funzione quale stabilizzante, bagnante, solubilizzante, disgregante, antimicrobico, etc etc. Mediante la loro azione viene dunque garantito al principio attivo il raggiungimento del sito d’azione e dunque il suo corretto assorbimento e distribuzione, nonché garantiscono la corretta conservazione del medicinale prima e dopo il suo utilizzo.

Come nasce una nuova entità chimica

Uno degli aspetti più interessanti riguarda la scoperta la realizzazione di un nuovo medicamento. E’ infatti opportuno sfatare un mito: esso non nasce immediatamente, ma dapprima viene progettata la sua porzione avente proprietà farmacologica (il principio attivo), quindi si passa a risolvere problematiche di tipo tecnologiche con studi di preformulazione e di formulazione (studi riguardanti la creazione di opportune forme farmaceutiche).

Il disegno di NCE rappresenta poi uno dei più complessi eventi nella progettazione di una nuovo farmaco. È possibile avere due approcci in tal senso:

* Basato sulla struttura del bersaglio

* Approccio farmacoforico.

Nel corso del primo, si sfruttano le conoscenze acquisite durante studi precedenti circa il recettore da colpire. In questo caso è dunque fondamentale conoscere la struttura chimica del bersaglio a partire dalla quale verrà disegnato il farmaco. Questo processo di drug design risulta essere possibile per la natura intrinseca del farmaco stesso ossia per il fatto che questi, per potere agire, deve potersi collocare nella porzione del recettore definita sito di riconoscimento in maniera “chimicamente complementare”, cioè in modo da stabilire delle interazioni tra i propri “atomi”, o per meglio dire gruppi funzionali, e quelli del bersaglio. Nota dunque la struttura del recettore è possibile disegnare mediante metodi computerizzati molecole in grado di allocarsi in tali siti stabilendo interazioni più o meno forti. Quella molecola (o famiglia di molecole) in grado di determinare una maggiore energia di legame (energia di binding) sarà appunto il farmaco più attivo. Questo però non significa avere il migliore farmaco per la cura di una patologia perché la maggiore attività potrebbe coincidere con un legame troppo duraturo e dunque con possibile tossicità del farmaco insorta a causa del fatto che, non rompendosi facilmente tale legame, esso resiste anche dopo la remissione della patologia facendo insorgere delle reazioni avverse (ADR). Per questa ragione sono fondamentali gli studi clinici (clinical trials) necessari infatti per richiedere al Ministero della Sanità l’autorizzazione all’immissione al commercio del farmaco.
Questo tipo d’approccio non risulta però scevro da limiti: da un lato, spesso le metodologie che portano a conoscere la struttura chimica del recettore sono molto costose; dall’altro, molti meccanismi d’azione dei farmaci si spiegano solo se questi ultimi ritrovano il proprio bersaglio direttamente all’interno dell’organismo umano, dunque la loro azione risulta essere “denaturata” qualora vengano testati al di fuori dell’ambiente biologico umano.

Per questa motivazione esiste un secondo approccio, quello farmacoforico effettuato senza “estrapolare” il bersaglio dal mezzo biologico. In un farmaco è infatti possibile distinguere una porzione molto importante che prende il nome di porzione farmacofora: si tratta di quella particolare parte della molecola che è responsabile dell’azione terapeutica del principio attivo stesso. Alle volte questa coincide con un piccolo gruppo di atomi (gruppo funzionale), altre con una porzione ancora più complessa. Dunque se si conosce una molecola avente proprietà farmacologiche e se ne vuole potenziare l’attività è possibile ricorrere a sostituzioni di atomi o molecole facenti parte del principio attivo (mediante studi abbastanza complessi che qui non trattiamo) al fine di migliorare il binding farmaco-recettore e dunque aumentare l’attività del composto stesso. Ciò però è possibile ad una sola condizione: infatti non si deve modificare la porzione farmacofora del principio attivo stesso (se non mediante sostituzioni bioisosteriche cioè con gruppi che determinano il medesimo effetto biologico) pena la perdita della proprietà terapeutiche del farmaco stesso.

In media si calcola che soltanto poche molecole sulla tante proposte durante la fase di disegno dei farmaci possono realmente candidarsi a nuovi farmaci: ciò è testimoniato dall’elevata durata della fase di ricerca e sperimentazione (almeno 10 anni) nonché dagli altrettanto elevati costi (circa 100 milioni di dollari)

La sperimentazione

Prima di essere testate sull’uomo, le nuove molecole “candidate a farmaco” vengono sottoposte a studi pre-clinici, ovvero una serie di prove sia in vitro che in vivo, indispensabili per determinarne il meccanismo d’azione e la cinetica. E’ opportuno sottolineare come, in questa fase della sperimentazione, spesso – purtroppo - sia indispensabile l’utilizzo di animali da esperimento (topi, ratti, cani, conigli, e – più raramente - scimmie): infatti, se, ad esempio, per testare un farmaco antivirale sarà sufficiente utilizzare una coltura cellulare, lo stesso non può dirsi per un antidepressivo. I test in vivo sono pertanto irrinunciabili in Psicofarmacologia, anche se, ovviamente, i risultati non debbono essere applicati in maniera acritica al modello umano. Negli animali da esperimento, vengono inoltre studiate le caratteristiche tossicologiche del farmaco, secondo linee guida stabilite dalla Food and Drug Administration americana e dalla analoga Agenzia Europea, affinché, eventuali effetti collaterali o tossici del farmaco vengano evidenziati ancora prima dell’utilizzo sull’uomo della molecola stessa. Infatti, terminata la fase pre-clinica della sperimentazione, hanno inizio gli studi clinici, condotti in 4 fasi successive

  • Gli studi di fase 1 (durata: circa un anno) vengono condotti previa autorizzazione del Ministero della Sanità ed hanno lo scopo di valutare i meccanismi di farmacodinamica, farmacocinetica, metabolismo, biodisponibilità ed, eventualmente, l’insorgenza di effetti collaterali (dovuti all’azione della molecola su altri organi o altre funzioni dell’organismo). Obiettivo importante di questa fase è quello di definire la tollerabilità del farmaco (dose minima efficace, dose massima tollerata): infatti può accadere che il farmaco risulti efficace negli studi pre-clinici a dosi tossiche per l’uomo. Ci si avvale di un gruppo di volontari sani (60-80 soggetti) preferibilmente di sesso maschile, affinché i risultati degli studi non vengano inficiati dalle cicliche fluttuazioni dei valori ormonali femminili.
  • Se non sono stati messi in evidenza effetti collaterali di una certa entità, si prosegue con gli studi di fase 2 (durata: 2-3 anni): questi hanno l’obiettivo di indagare meglio la farmacocinetica del farmaco, al fine di migliorarne gli effetti terapeutici nei riguardi della patologia da curare. Inizia quindi, in centri ospedalieri selezionati e sotto il controllo di un comitato etico, la ricerca controllata nei pazienti (che devono essere informati puntualmente degli effetti del nuovo farmaco e dei potenziali rischi previsti, e firmare una dichiarazione di consenso informato), al fine di stabilire la dose efficace.
  • Con gli studi di fase 3 (durata: da 2 a 6 anni) studiamo in maniera ancora più approfondita il rapporto rischio/beneficio del nuovo farmaco. Essi sono in genere "progettati come ricerche internazionali e multicentriche" (quindi molto costosi) e condotti su un grande numero di pazienti (1000 – 3500), molto simili per età, distribuzione geografica e sesso a quelli che riceveranno il nuovo trattamento. Quest’ultimo, nei cosiddetti studi a doppio cieco, viene confrontato con un placebo, una sostanza farmacologicamente inerte, o, se ciò non fosse possibile per problemi etici, con un farmaco già noto. Scopo della fase 3 è quello di confermare la tollerabilità e l’efficacia del farmaco e di stabilirne il profilo terapeutico e cioè: posologia, indicazioni, controindicazioni, precauzioni di impiego ed effetti collaterali. In questa fase, inoltre, sarà possibile portare alla luce eventuali interazioni della nuova molecola con “vecchi farmaci”, sostanze di origine alimentare e/o fattori ambientali (luce solare, temperatura etc.). Superata la fase 3, il farmaco può, finalmente, essere immesso in commercio. Siamo quindi in fase 4.
  • Nella cosiddetta fase 4, il farmaco è costantemente tenuto sottocontrollo affinché ogni eventuale effetto indesiderato sfuggito alle precedenti fasi della sperimentazione possa essere agevolmente monitorato. Infatti, effetti collaterali non comuni o a lunga latenza possono anche manifestarsi dopo qualche anno dall’epoca di immissione del farmaco nel mercato. Secondo il D. Lgs. 44 del 18.02.97, il quale regola la Farmacovigilanza (di cui avremo modo di parlare in maniera più approfondita), ogni operatore sanitario è tenuto a segnalare l’insorgenza di reazioni avverse precedentemente misconosciute, fermo restando che spesso è molto difficile identificarli con certezza e questo perché il paziente con il quale il farmaco va ad impattare, superata la fase 3, è quasi sicuramente più complesso rispetto al paziente sul quale il farmaco è stato sperimentato (vedi Limiti della sperimentazione). È possibile rintracciare la presenza di fattori che possono agire sia come fattori di confondimento – per così dire – che come concause. Questi sono, ad esempio, l’assunzione di più farmaci (condizione che si verifica sempre più spesso), l’evolvere della patologia di base, la presenza di patologie concomitanti, le condizioni ambientali, la variabilità da individuo a individuo; essi, nel ruolo di concause, possono agire modificando la risposta dell’organismo al farmaco e determinando quindi alterazioni di quella farmacodinamica e di quella farmacocinetica studiate in corso di sperimentazione. Gli studi di fase 4 sono stati riconosciuti - e regolamentati - dal Ministero della Sanità come studi osservazionali (circolare 2 settembre 2002 n.6).

I limiti nella sperimentazione:

Per quanto accurata possa essere l’intera fase di sperimentazione anche questa presenta diversi limiti qui sotto sintetizzati:

Breve durata della sperimentazione:
vale per i farmaci che saranno assunti per un periodo molto prolungato (diversi anni o addirittura tutta la vita), poiché questo periodo d’assunzione non è assolutamente confrontabile con quello reale del farmaco

Popolazione selezionata: nell’interesse dello sperimentatore, onde ottenere dei dati generali ed il più possibile attendibili, vengono esclusi dalla sperimentazione pazienti con particolari fattori di rischio quali neonati, anziani, donne in stato di gravidanza, pazienti affetti da polipatologie, ecc ecc

Indicazione ristretta: il farmaco sarà sperimentato sull’uomo in base alla sola indicazione per cui è stato disegnato. Dunque proprietà farmacologiche secondarie (che possono essere più importanti di quelle per cui il farmaco era stato pensato) non verranno valutate

Ambiente della sperimentazione: essa avviene in enti ospedalieri e dunque al di fuori dei contesti sociali dove la maggior parte dei farmaci verranno assunti dai pazienti

Numero ristretto dei pazienti: il numero di soggetti su cui un farmaco viene studiato non supera mai le 5000-6000 unità il che significa che la possibilità di avere il 95% di probabilità di comparsa di una reazione avversa risulta molto esigua.

I brevetti

Le stime statistiche testimoniano un dato molto importante: nei 20 anni trascorsi tra il 1966 e il 1985il 98% delle NCE proviene dalle industrie (dunque da istituti privati) e solo il 2% dalle università (enti pubblici). Questo pone una questione abbastanza importante nell’ambito farmaceutico: la necessità da parte degli “investitori privati”di recuperare ciò che hanno investito in tema di ricerca più un certo surplus che può esser riutilizzato per investire in altra ricerca. Da qui nasce l’esigenza di brevettare le nuove sostanze per potere gli investimenti affrontati nel corso degli anni. Tale brevetto deve rispondere ai requisiti di novità, originalità ed industrialità.

È possibile ricorrere a vari tipi di brevetto:

Brevetto di prodotto: viene protetto uno specifico principio attivo indicandone il nome della struttura chimica,o, nel caso in cui questa non sia facilmente reperibile o possa dare adito a confusione, specificando il metodo di sintesi oppure la caratterizzazione chimico-fisica. Esso comprende:

§ Brevetto di selezione: protegge una singola famiglia di molecole o addirittura una molecola soltanto

§ Brevetto di procedimento: tutela solamente il processo di sintesi di una data molecola poiché, sebbene con rese diverse, esistono sempre possibilità diverse per sintetizzare uno stesso principio attivo

§ Brevetto di sinergismo: quando un farmaco A, assunto in concomitanza ad uno B produce un effetto terapeutico maggiore

§ Brevetto di indicazione: è relativo alla scoperta di una nuova indicazione per un farmaco già in uso. Ciò avviene poiché la sperimentazione clinica presenta tra i suoi limiti l’essere testato solo ed esclusivamente per una singola patologia.

§ Brevetto di formulazione: corrisponde ad una nuova forma di somministrazione del principio attivo e dunque ad una uova forma di dosaggio

In linea di massima sarebbe anche possibile un brevetto di sbarramento che proteggerebbe una intera famiglia di composti caratterizzati da uno stesso gruppo funzionale ma ciò imporrebbe un limite vero e proprio ala ricerca: volendo usare un paragone alquanto azzeccato, appreso durante il corso di farmacovigilanza, “sarebbe come se un inventore brevettasse genericamente lo yogurt e poi fosse impossibile per un altro brevettare lo yogurt alla frutta. Tuttavia tale brevetto risulta legale qualora la formula di struttura si riferisce ad una sola classe di sostanze.

Normalmente una industria farmaceutica brevetta la NCE prima di ricevere l’autorizzazione a procedere ai clinical trials da parte del Ministero della Sanità: dunque almeno dieci/dodici anni prima della possibile immissione in commercio della molecola. Poiché ogni brevetto ha una durata massima di 20 anni, resterebbero, nella peggiore delle ipotesi, soltanto 8 anni all’industria per potere recuperare le spese impiegate in tema di ricerca. Ciò significherebbe imporre un prezzo troppo eccessivo sul farmaco stesso. Per tale ragione è stato introdotto il Certificato di protezione supplementare (CPS) che estende la durata del brevetto per un periodo pari a quello trascorso tra la domanda di brevetto e l’autorizzazione all’immissione al commercio, imponendo però come durata massima d’estensione 5 anni. In italia in precedenza esisteva un Certificato di protezione complementare (CPC) avente la stessa funzione del CPS ma la cui durata massima era di 18 anni. Ciò ha però notevolmente limitato lo sviluppo di farmaci generici ossia di farmaci che possono essere acquistati ad un costo inferiore rispetto alla sua controparte commerciale.

Articolo ideato e scritto a quattro mani con Alessandra Castrogiovanni

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"Il fatto che un'opinione sia ampiamente condivisa, non è affatto una prova che non sia completamente assurda. Anzi, considerata la stupidità della maggioranza degli uomini, è più probabile che un'opinione diffusa sia cretina anziché sensata". Bertrand Russell.